Come andò a finire. Rubrica di satira ucronica.
La riforma della Pi A (della pubblica amministrazione, cioè)
di Alberto Attolini
La gente comune, quando ha voglia di un divertimento veloce, ride delle barzellette sui carabinieri. Gli uomini di governo, persone per definizione di gusti meno sempliciotti, quando ridevano (e volevano far divertire anche gli elettori), immancabilmente tiravano fuori una vecchia barzelletta: la riforma della pubblica amministrazione. Questa si poteva definire un vero evergreen, sempreverde dell’umorismo italico. Bastava dirla così: «Riformeremo la pubblica amministrazione!». E tutti si piegavano dalle risate. Risa vere, omeriche, non quelle fasulle da pubblico delle sit-com. Non mancavano mai, tra i politici, quelli dotati di maggior talento umoristico. Questi colorivano la barzelletta con particolari fantasiosi e iperbolici, stuzzicando l’immaginazione dell’uditorio e stimolandone l’ilarità. Fu così, da battute d’avanspettacolo, che nacquero tormentoni memorabili, ancora oggi citati come esempi grandiosi di una comicità pulita e spontanea, adatta alle famiglie e ben diversa da quella di oggi, tutta pervasa da turpi quanto espliciti riferimenti sessuali. Un ministro della destra tuonò contro l’assenteismo arrivando a dire, in un irresistibile crescendo di amenità, che avrebbe stroncato il fenomeno delle malattie fasulle. Una sua avversaria, dallo schieramento opposto, rilanciò e la sparò ancora più grossa, proponendo il declassamento per i dirigenti incapaci. Un noto giornalista bergamasco, addirittura, auspicò il licenziamento per i dipendenti pubblici fannulloni. Il bello è che lo disse tutto serio, salvo, non appena fuori onda, lasciarsi andare in un: «Pota, Sgnur!», mentre la pipa gli andava per traverso dal ridere. I primi a sghignazzare per queste facezie erano proprio i dipendenti pubblici, che dimostravano un’autoironia degna dei loro colleghi britannici.
Purtroppo, come dice un vecchio adagio, il troppo stroppia. A furia di sentirla raccontare, la storiella della riforma della pubblica amministrazione, anzi, della Pi A, smise di far ridere e iniziò a far riflettere. Naturalmente rifletteva di più chi meno aveva da fare, cioè i dipendenti pubblici. E fu allora che si realizzò la riforma della Pi A.
Prima di ricostruirne le vicende, occorre precisare che le cose non si svolsero nel senso fin lì puerilmente auspicato dai citati umoristi, ma esattamente al contrario. La pubblica amministrazione, infatti, passò da oggetto a soggetto della riforma: anziché subire l’imposizione di nuove regole, fu la pubblica amministrazione a passare all’attacco, riformando lo Stato. La riforma della Pi A previde una serie di novità. Quella di maggior impatto mediatico fu l’ereditarietà dei posti pubblici, nella quale si fissava, al contempo, un necessario limite massimo al numero degli impiegati. Il passo successivo fu una drastica riforma delle pensioni, che modificò i requisiti per la quiescenza: per i privati furono richiesti un minimo di 80 anni di contributi, mentre i dipendenti pubblici, essendo le loro mansioni considerate usuranti, potevano pensionarsi al compimento del cinquantesimo anno di età anagrafica. L’orario di lavoro venne ridotto a 4 ore giornaliere, 2 delle quali dedicate alle pause. Per i dirigenti vennero previsti aumenti di stipendio automatici ogni sei mesi, mentre i bidelli ottennero l’auto blu. Severe norme regolarono la lingua italiana, riportando sulla breccia lemmi ormai putrefatti, tra i quali, a mero titolo esemplificativo, giova ricordare: codesto, tampoco, denunzia, costì.
Finalmente fu realizzata la riforma elettorale, che previde un sistema definito pubblicistico ponderato. Pubblicistico perché riservava tanto l’elettorato attivo quanto quello passivo ai soli dipendenti pubblici. Ponderato in quanto attribuiva a detti voti un diverso peso, a seconda del grado ricoperto nella gerarchia. Con la medesima riforma elettorale si posero stringenti criteri per essere membri del governo e delle più alte cariche dello Stato, non trascurando di prevenire saggiamente possibili conflitti d’interesse. Si stabilì, ad esempio, che un generale fosse ministro dell’interno e un questore della difesa, un docente universitario ministro della sanità e un medico dell’istruzione. Per la presidenza del consiglio occorreva essere prefetto. I problemi sorsero quando si trattò di regolare la suprema carica, la presidenza della repubblica. Trascorsero alcuni anni di stallo: ogni categoria voleva essere rappresentata, perché nessuno si fidava della fazione avversa. Si rividero scene degne dei periodi di anarchia militare che contrassegnarono l’ultima parte dell’impero romano. Alla fine si raggiunse un faticoso accordo sui requisiti minimi previsti per il nuovo capo dello stato: giudice, docente universitario, grand commis.
Fu così che venne restaurata la monarchia assoluta e la corona fu affidata a Giuliano Amato.
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