Satira: Come andò a finire, cronache dall’anno 2122.

di Enea de Virgiliis

Fin dalla notte dei tempi una persona o un popolo che migra porta con sé le proprie tradizioni, ivi comprese, giustamente, anche quelle culinarie. Nel Novecento tutto cominciò con la pizza. I napoletani emigrati nel Nord Italia, in Europa e in tutto il mondo, esportarono questo cibo, povero ma al tempo stesso veloce, gustoso ed economico e fu un successo incredibile. Le pizzerie si diffusero rapidamente in tutto il pianeta e non solo per la fruizione dei napoletani o degli italiani del Sud, ma, in breve, per la gioia di tutti: bianchi, neri, gialli, verdi… Ah no, questi non esistono. Beh, se esistessero, mangerebbero la pizza anche loro. Ad un certo punto gli italiani smisero di emigrare o, perlomeno, di farlo massicciamente, mentre l’Italia diveniva, a sua volta, un polo d’attrazione per migranti. Anche questi, assieme alla iconica valigia di cartone, portarono con sé usanze e tradizioni, incluse quelle culinarie. I primi furono i cinesi, veri o presunti tali, in quanto tanti erano, il più delle volte, del Vietnam anche se si spacciavano per figli dell’Impero celeste. La cucina cinese divenne in breve tempo popolare. Essa, infatti, aveva il fascino dell’oriente e il mistero di territori inesplorati, all’epoca veramente lontani e irraggiungibili a causa della “cortina di bambù”. I prodotti con gli occhi a mandorla furono presto familiari in tutta Italia e il ristorante cinese iniziò a fare concorrenza alla pizzeria. Quindi arrivarono gli immigrati dal Nord Africa e comparvero i kebabbari. Prima timidamente, rivolti solo ai loro connazionali, poi sempre più presenti, destinati ad una clientela allargata anche agli autoctoni. In seguito fu la volta degli immigrati dell’Est, che aprirono, nelle varie città, negozi in cui vendevano i loro prodotti tipici, oltre – ovviamente – piccoli locali dove servivano le loro specialità. In breve, capito il business, ogni popolo iniziò ad inaugurare i propri punti di ristorazione: rumeno, argentino, pakistano, indiano, thailandese, messicano, brasiliano… Tutti accomunati nell’accezione di ristorante etnico. Anche questo divenne una moda, una moda in continua espansione fino al passaggio successivo, cioè fino alla normalizzazione. Se prima andare al ristorante etnico era una sorta di obbligo, generato dal voler seguire il sentire comune e dal non voler sembrare antiquati, anche se certi piatti non soddisfacevano appieno il proprio gusto, in seguito divenne la norma, indifferente alle mode e alle influenze esterne.

Il ristorante etnico era talmente abituale da essere preso di mira pure dagli autori satirici. Fu così che nacque la sfortunata gag di un trio comico molto in voga. Uno dei tre annunciava il suo prossimo pranzo al ristorante del Biafra e gli altri, guardandolo con commiserazione, gli chiedevano se avesse in programma un digiuno. La battuta, assolutamente orribile, razzista e classista, venne presto dimenticata, ma ciò dà l’indice della popolarità di cui godevano questi ristoranti.

Tra i vari popoli migranti vi erano, ovviamente, anche quelli che praticavano l’antropofagia, cioè i cannibali. Fu proprio una coraggiosa persona proveniente da queste etnie che decise di tentare quello che fino ad allora si riteneva impossibile: aprire un ristorante legato alle proprie tradizioni e alle proprie ricette. Un ristorante etnico di cannibali destinato ai cannibali. La cosa filò liscia per i primi tempi, probabilmente perché la carne veniva importata e magari fatta passare per alimento animale. I problemi iniziarono quando un cuoco venne accusato di omicidio. La sua difesa fu sincera: “Stavo facendo la spesa”. La magistratura comprese la posizione di questo onesto lavoratore, costretto all’omicidio per mandare avanti la propria attività. Del resto, argomentava la sentenza, non si poteva imporre a un povero migrante di stravolgere usi e costumi soltanto per un mero pregiudizio alimentare occidentale. Considerando, poi, che anche la vittima, le cui carni servirono per il manicaretto, era della medesima etnia del cuoco, si ritenne di mandare quest’ultimo assolto. Fu una pronuncia che aprì la strada ai ristoranti etnici per cannibali e che servì da richiamo per gli antropofagi di tutto il mondo: dall’estremo Oriente fino all’Africa nera.

L’unico limite che si pose fu la genuinità dei piatti, cosa che peraltro sembra sensata, ovvia e giusta. I piatti tradizionali, per essere serviti agli avventori, dovevano contenere gli ingredienti abituali, quelli usati da sempre. Il NAS, sempre attivo nel reprimere frodi alimentari, sequestrò un ristorante perché, nelle sue preparazioni di ricette africane, utilizzava indebitamente carne di cinese. Si riconobbe la contraffazione alimentare e i titolari furono condannati a una multa salatissima ed espulsi dall’Italia.

Non mancarono, purtroppo, altri fraintendimenti, a volte dolorosi. Uno di questi ebbe abbastanza rilievo sulla stampa per le sue implicazioni successive. Tutto nacque quando due vegani entrarono, a loro insaputa, in un locale che serviva menu antropofagi, attratti semplicemente dal lancio sulla vetrina che annunciava “finocchi al forno”. Con orrore si trovarono nel piatto non gli ortaggi, ma carne di gay arrosto. Il titolare cercò di rabbonirli, spiegando che si trattava di carne umana e non animale, ma non vi fu nulla da fare: i vegani schifati corsero subito a presentare denuncia. Il ristorante venne chiuso e il titolare fu processato e condannato al carcere per omofobia. La vicenda, tuttavia, aprì un grosso dibattito in seno tanto all’élite intellettuale quanto alla comunità vegana. Infatti, la difesa del ristoratore, seppure non accolta dalla magistratura o comunque passata in subordine rispetto alla gravità del fatto di chiamare finocchio un omosessuale, fece molto riflettere. La questione era semplice e intrigante al tempo stesso, in quanto si trattava di chiarire se effettivamente la carne umana fosse compatibile con una dieta vegana. Se da un lato si trattava di carne, dall’altro non era animale. Dopo lunghe e articolate discussioni, lettere aperte pubblicate sulla stampa, seminari in università, momenti di approfondimento e di riflessione, interventi di esponenti di diverse religioni… si giunse alla conclusione che per il vegano era lecito nutrirsi di carne umana, purché non fosse prodotta con sfruttamento di animali. In una parola il vegano poteva nutrirsi solo con la carne di suoi simili, cioè di altri vegani.

Ed eccoci, così, giunti ai giorni nostri, dove, finalmente, è possibile fare una bella cena antropofaga, in un raffinato ristorante di cannibali, nel rispetto delle culture e delle tradizioni di tutti. Provando agli xenofobi quanto sono buoni gli immigrati.

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