di Enea de Virgiliis
L’uso alimentare degli insetti fu introdotto in Italia in maniera morbida, così da vincere le naturali diffidenze. Dapprima venne sdoganato, limitandolo a una mera curiosità o alle cucine etniche. In seguito, col passare del tempo, prese sempre più piede tra la popolazione, che era contenta di mangiare insetti, perché così facendo riduceva l’impatto del cibo sull’ambiente e inquinava meno, perché aveva una prospettiva di sostenibilità, perché lo diceva la scienza, perché lo diceva la moda, perché lo dicevano gli influencer e chi più ne ha più ne metta.
L’agroalimentare non ebbe una particolare ripercussione, malgrado alcuni gufi ne paventassero il tracollo. Il sano pragmatismo contadino, infatti, riuscì a cavalcare la tigre della novità e, gattopardescamente, a far sì che nulla cambiasse. Si può illustrare quanto avvenne, passando dai felini ad altri generi di animali, tipo i bovini. Tutto fu convertito, esattamente come avviene nell’industria quando una guerra termina e, al posto delle autoblindo, si riprende a produrre camion. Le stalle rimasero tali e quali come ai tempi in cui ci si alimentava con carne bovina, latte e latticini. Poiché ora la carne non la mangiava più nessuno, l’unica differenza era rappresentata dal fatto che le vacche morivano di vecchiaia e il latte era bevuto solo dai vitelli. Del resto i bovini servivano ad altro, a produrre una materia prima insostituibile e non replicabile nei laboratori delle multinazionali: l’oro marrone, altrimenti detto sterco. Questo, infatti, era assolutamente indispensabile per allevare mosche di qualità, animali sani e genuini che andavano ad allietare il desco di adulti e bambini. Allo stesso modo, i cavalli erano utilizzati per l’allevamento dei tafani e i conigli, dal pelo folto e morbido, per quello di pulci e zecche.
Similmente, i gruppi d’acquisto solidali cambiarono il loro oggetto. Si passò, ad esempio, dalle verdure agli scarafaggi, richiesti direttamente alle imprese che si occupavano di spurghi delle fogne. Scarafaggi sani, di origine controllata e garantita, non come quelli che venivano dagli allevamenti asiatici, alimentati con chissà cosa.
L’uso alimentare degli insetti, tuttavia, prese presto una piega inaspettata, che rischiò di sfociare in un dramma. E, come spesso accade, la deflagrazione fu generata da una cosa di poco conto, nel nostro caso il picnic.
Una volta il picnic consisteva nel recarsi in campagna o, ancora meglio, nel bosco, portando da casa un pranzo da consumare su una coperta stesa sull’erba, stando ben attenti che le formiche, o altre bestiole, non arrivassero in prossimità del cibo. In seguito, quando si impose la moda insettivora, il telo scomparve, assieme ad altri passaggi. Era una logica conseguenza: quando si va a cenare al ristorante non ci si porta il cibo da casa. E così frotte di persone andavano nel bosco o in campagna, si sedevano in terra e tiravano fuori pane affettato, rigorosamente fatto con farina di grilli e di larve. Le fette di pane venivano messe direttamente sull’erba e si aspettava che formiche, formiconi e qualunque altro tipo di insetto vi arrivasse sopra. A quel punto, si prendevano due pezzi e si chiudevano, iniziando a mangiare velocemente, in modo che le bestiole, ancora in movimento, non cadessero a terra.
All’inizio questo nuovo sistema presentò dei vantaggi. Un tempo, infatti, il problema del picnic era lo smaltimento dei rifiuti, in quanto parecchie persone, assolutamente incivili, lasciavano sull’erba cartacce, residui di cibo, borse e bottiglie di plastica, bottiglie e barattoli in vetro… Questo inconveniente venne risolto dalla moda green. La plastica era stata assolutamente bandita e quindi non si poteva più lasciare in giro, mentre i residui di cibo si limitavano al massimo a qualche zampa di formica o ala di mosca. In breve, tuttavia, emerse un devastante impatto sull’ecosistema. Il picnic divenne una moda di massa, in quanto consentiva di mangiare insetti gustosissimi praticamente a costo zero. Giusto per fare un esempio, questa pratica offriva gratis formiche fresche, ruspanti, profumate di sottobosco più che funghi porcini, una prelibatezza introvabile anche nel più raffinato dei ristoranti. Torme di buongustai uscirono dai centri abitati per riversarsi nei boschi e qui sparirono le formiche, gli scarabei, i cervi volanti, gli scarafaggi. Scomparve qualunque forma di insetto, compresi i ragni e le libellule. Campi e foreste erano invasi da ingordi che, dopo aver divorato tutto il possibile, gonfi di insetti, si mangiavano pure i funghi velenosi senza patire alcun danno. I vegani si associarono e, tolta una emme, abbandonarono l’hummus per l’humus, che peraltro trovarono assai gustoso.
Boschi e campagne iniziarono ad andare in rovina e il governo dovette intervenire drasticamente. La prima misura riguardò il divieto di picnic, ma subito ci furono i soliti furbi che dichiaravano di trovarsi lì per un’escursione e di aver portato il cibo da casa. A quel punto si dovettero proibire le escursioni. Abituati al picnic, molti lo trasformarono in un evento urbano, andando a stanare ragni, scarafaggi e scarabei dai posti più impensati. Da dietro i cartelli stradali, dai tombini, dalle siepi, perfino dai vasi di fiori. L’ulteriore giro di vite fu l’approvazione di una legge che vietava severamente il consumo cibo all’aperto. Anche questo non bastò. I cittadini erano ormai abituati al gusto del cibo selvaggio, quasi drogati, e si ridussero a una sorta di uccellagione: mettevano sui davanzali delle finestre ciotole con miele, acqua zuccherata e farina di solo frumento, cucinando tutto quel che entrava in casa. Le zanzariere erano utilizzate a rovescio, per non far uscire le zanzare dalle abitazioni, e i pipistrelli facevano la fame. A quel punto il governo non ebbe altra opzione che imporre il provvedimento più draconiano possibile al fine di salvaguardare l’ambiente: fu proibito il consumo alimentare di insetti e istituito l’obbligo di mangiare carne rossa almeno una volta al giorno.
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